Oggi l’edilizia – quella rappresentata dalla più importante associazione datoriale e delle tre principali organizzazioni sindacali di categoria – scende in piazza, rivendicando con forza strategie ed investimenti per arginare la crisi di un settore vitale per l’economia italiana.
Una iniziativa ampiamente condivisibile: la crisi non è affatto superata, e senza un’azione di impulso della politica, che passi attraverso una ripresa degli investimenti infrastrutturali ed una più coraggiosa manutenzione dell’esistente, è difficile intravedere vere possibilità di ripresa.
I segni e le conseguenze della crisi sono purtroppo sempre più evidenti: come sempre più evidenti sono da un lato il distacco delle regioni del Mezzogiorno dal resto del Paese, dall’altro quello tra l’Italia e le altre realtà europee.
L’Italia ha subito una contrazione della percentuale di investimenti rispetto al prodotto interno lordo, tra il 2007 e il 2016, da 47 a 36 miliardi di euro. Fino al 2018, questo dato è calato ulteriormente a 34 miliardi di euro. La flessione complessiva, nel periodo, è stata del 27%.
In un contesto economico già così complesso, si sono poi inseriti nel tempo ulteriori fattori che hanno finito per condizionare pesantemente, se non per disincentivare, gli investimenti nel settore: i ritardi nei pagamenti, il divario (ancora vergognosamente abissale) tra fondi stanziati e risorse effettivamente spese, i tempi lunghissimi di realizzazione delle opere.
Ancora oggi, nonostante le tante promesse e le buone intenzioni, la pubblica amministrazione impiega in media 55 giorni per saldare i suoi creditori. Al Sud questa tempistica media arriva a 122 giorni, nonostante le disposizioni europee impongano un termine di 30 giorni.
Dalla legge di bilancio 2016 in poi, il piano investimenti di volta in volta previsto (con risorse fino a 140 miliardi) è rimasto quasi sistematicamente sulla carta, con utilizzi effettivi davvero minimi, addirittura irrisori. E i tempi di realizzazione delle opere rimangono su livelli insostenibili: quelli al di sotto dei 100.000 euro vengono completati in 2,6 anni; quelli di valore superiore, addirittura in 15,7 anni.
In un simile contesto è quindi doveroso e legittimo invocare azioni di discontinuità e di rilancio del comparto. Tanto più considerando come molti degli interventi, nati e pianificati per “semplificare”, accelerare le procedure, etc. si siano poi tradotti – il Codice degli appalti ne rappresenta l’esempio più emblematico – in fattori ancor più congestionanti e paralizzanti dell’attività pianificatoria, progettuale e realizzativa.
La politica ha quindi senza ombra di dubbio le sue enormi responsabilità e la protesta è legittima è condivisibile.
Occorre una seria e concreta visione strategica che – con un programma strutturato e un piano attuativo di breve-mediotermine – punti con decisione a chiare e determinate priorità di investimento, non più procrastinabili: sicurezza e consolidamento antisismico degli edifici (a partire da scuole ed edifici pubblici); sicurezza del territorio contro il dissesto idrogeologico; efficienza dei trasporti e dei collegamenti stradali ed autostradali; manutenzione dell’esistente a partire da ponti e viadotti; riqualificazione delle città e recupero/integrazione delle periferie; contenimento del consumo energetico. Tutto questo deve tramutarsi in visione strategica, azione politica, progetti e cantieri in tempi estremamente solleciti per rilanciare il comparto dell’edilizia e l’economia italiana.
Azioni e cantieri, non programmi e promesse come sistematicamente avviene. Il Comitato interministeriale per la politica economica (Cipe), ad esempio, con cadenza periodica pubblica ormai una sorta di “libro dei sogni” elencando gli investimenti pubblici in infrastrutture. Finanche il mero annuncio degli interventi è diventato fattore di eccessivo rallentamento, perché ormai è un dato noto e consolidato che tra la delibera del Cipe, il controllo della Corte dei Conti, la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, trascorrono nella migliore delle ipotesi mesi; spesso anni. Al termine dei quali si ridefiniscono i programmi e si riappostano gli investimenti ricominciando, come in un pazzo gioco dell’oca, tutto da capo.
Per non parlare della confusione di ruoli e funzioni, della mancanza di coordinamento tra i soggetti pubblici coinvolti nella realizzazione delle opere, della caterva di controlli, beneplaciti e autorizzazioni cui tocca attenersi (e rispettare) anche per rimuovere una piastrella.
La revisione del Codice dei contratti pubblici è divenuta ormai una necessità urgente per snellire e semplificare le procedure (proprio le funzioni cui il Codice avrebbe dovuto assolvere) segnatamente per quanto attiene la progettazione e la costruzione delle infrastrutture.
Ma non tutto tocca alla politica. Associazioni datoriali e sindacati devono svolgere anch’essi, e fino in fondo, la loro parte evitando di arrocarsi su posizioni preconcette e antiquate, su difese dello status quo che avevano un senso dieci anni fa, ma che oggi non hanno più ragione di esistere.
Il Contratto nazionale degli edili era innovativo quando fu sottoscritto: oggi non lo è più, nel tempo ha perso questo carattere. È rimasto chiuso in se stesso, arroccato in sistemi di prerogative, tutele e guarentigie non più al passo con i tempi e che sono divenuti essi stessi fattori condizionanti (se non congestionanti) per la ripresa del settore e il rilancio dell’occupazione.
Lo stesso sistema della bilateralità, lungi dal supportare concretamente e tangibilmente imprese e lavoratori, è spesso divenuto un orpello troppo spesso economicamente insostenibile, che finisce per gravare eccessivamente sulle retribuzioni.
Il coraggio e l’innovazione, allora, deve investire tutti. Ed ognuno deve fare responsabilmente la propria parte. Occorre adeguarsi ai tempi e non arroccarsi su posizioni preconcette e antiquate che non hanno più ragione di esistere: occorre innovazione, occorre flessibilità, occorre formazione, occorre “alleggerire” i tanti gravami e orpelli sulle buste paga per ridare ossigeno a imprese e lavoratori.
Alla politica compete, senza dubbio, il “grosso” nella strategia di rilancio del settore e del Paese. Ma sindacati e imprese devono fare la loro parte, fino in fondo. Effettivamente e concretamente.
Antonio Lombardi
Presidente nazionale
FederCepi Costruzioni