Occorre che lo Stato provveda sollecitamente a saldare i debiti che ancora non ha onorato.
Ripartiamo dal sostegno concreto alle imprese del Sud
Ben prima della pandemia in Italia una crisi devastante persisteva e mordeva in molti comparti. L’edilizia sicuramente tra questi, con l’incidenza di una burocrazia onerosa e asfissiante, con una tempistica decisionale affatto in linea con un mondo globalizzato e veloce.
di Antonio Lombardi*
L’emergenza Covid ci lascia una pesante e dolorosa eredità di vittime e strascichi di crisi in aree e settori nevralgici per il Paese, che dureranno chissà per quanto tempo. Penso alla sanità, bistrattata e penalizzata per decenni; penso al turismo, alla ristorazione, ai trasporti. A tutta una serie di conseguenze che avranno pesantissime ripercussioni sul sistema-Paese. Ma proprio come avvenne subito dopo l’ultimo conflitto mondiale, occorre riprendere in mano le redini del coraggio e del decisionismo, per fare della distruzione e delle macerie una grande opportunità. Il Covid-19, da questo punto di vista, ci lascia anche un nuovo modo di vedere e di agire. Un’esperienza che può (e deve) tornare utile per decidere, pianificare, programmare, costruire. Dopo un durissimo, estenuante lockdown, che ha interessato anche quasi tutti i cantieri edili, occorre ora pianificare la Fase 2. E soprattutto – ancor di più – le fasi che seguiranno. Tocca guardare avanti, nella consapevolezza che non si tratta soltanto di “riaprire” e ripartire, di riavviare il ciclo produttivo. Di riprendere insomma laddove ci si era fermati per arginare il contagio e combattere il virus.
Non è purtroppo così. Il sistema Paese non è una lampadina, che si può spegnere e riaccendere a piacimento. Un’autovettura che si rimette in moto, di punto in bianco, semplicemente ruotando la chiave nel cruscotto.
Non è così soprattutto in un Paese come il nostro che, ben prima della pandemia, annaspava e faticava a venir fuori da una crisi devastante, che ancora persisteva e mordeva in molti comparti. L’edilizia sicuramente tra questi, con una incidenza dello Stato: per i debiti non onorati, per una burocrazia onerosa e asfissiante, per una tempistica decisionale affatto in linea con un mondo globalizzato e veloce.
Oggi la ripresa rende indifferibili ed estremamente urgenti, le soluzioni ai più gravi problemi di ieri. Con la pandemia quelle difficoltà sono divenute situazioni insostenibili e intollerabili: ne va della sopravvivenza stessa di migliaia di imprese.
Se prima le imprese edili scontavano enormi difficoltà di accesso al credito, oggi quel problema assume i contorni di una emergenza liquidità, che non si risolve aprendo linee di credito o favorendo ulteriore indebitamento. Non basta ed anzi per un settore come l’edilizia già duramente provato, assume quasi i contorni della beffa.
Occorre un sostegno deciso e concreto, che comprenda la sospensione – non il mero rinvio – di tasse e contributi per tutto il periodo di lockdown, e forme di sostegno a fondo perduto per le imprese.
Occorre che lo Stato provveda sollecitamente a saldare i debiti che ancora non ha onorato verso le imprese, per lavori eseguiti, completati e consegnati nel 2019: 53 miliardi, dei quali oltre 9 verso il settore delle costruzioni. Non incentivi, contributi o finanziamenti: soldi che lo Stato “deve” alle imprese e tarda a pagare, nonostante le continue (ed onerose) procedure di infrazione dell’Unione Europea. Basterebbe che lo Stato onorasse i suoi debiti, per assicurare una prima importante, significativa boccata d’ossigeno alle imprese.
Tocca rimetter mano al Codice dei Contratti, che lungi dal semplificare e accelerare, è divenuto – tra modifiche corpose, integrazioni, interpretazioni, ancora più complesso e farraginoso della precedente regolamentazione. Molte delle modifiche proposte da Federcepicostruzioni, sono state accolte e recepite dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sen. Mario Turco, e dovrebbero rientrare nel decreto sburocratizzazione di maggio. Ma è soltanto un primo importante step: occorre fare di più, con più coraggio.
Anche lo split payment è un meccanismo da rivedere perché drena liquidità alle imprese. In questa fase, è un lusso che il Paese non può permettersi: tocca “sciogliere” ogni legaccio per liberare energie e risorse, se davvero si vuole imboccare la via della ripartenza con più decisione e con più efficacia.
Poi, tocca metter mano con coraggio e decisione a tutto il sistema-Paese. A tutte quelle problematiche che hanno – ben prima del virus – frenato una ripresa che altrove s’è avvertita sensibilmente. Tutte quelle problematiche che hanno fatto sentire il loro peso anche in questi giorni di emergenza.
La prima è la burocrazia, sempre meno sostenibile. Finanche in piena emergenza, abbiamo trovato il modo di complicare una banale autocertificazione per gli spostamenti, proponendo e rivisitando la modulistica a ciclo continuo, come in un assurdo gioco, determinando confusione e spossatezza. Con questo “gioco” le imprese hanno a che fare quotidianamente per ogni incombenza, per ogni procedura.
Un’astrusità che, proiettata nel settore delle opere pubbliche e dei cantieri, si traduce in ritardi, opere bloccate, confusione procedurale, accavallamenti e sovrapposizioni delle competenze. Un “lockdown operativo e decisionale” che dura purtroppo da tempo, da cui oggi tocca venir fuori con decisione, se davvero si vuole imboccare la strada della ripartenza.
La mala burocrazia ha già prodotto ed ancora produce effetti devastanti sulle opere pubbliche. Non è un caso che si registrino tantissime opere ferme, bloccate: ad oggi sono oltre 520, 121 arenatesi solo da gennaio 2019 ad oggi.
La mala burocrazia si traduce in un freno agli investimenti e in tempi di attraversamento che rendono improponibile ogni pianificazione economico-finanziaria di potenziali investitori: per la realizzazione delle infrastrutture finanziate dalle politiche di coesione in Italia, tanto per dare un’idea, occorrono 4 anni e 4 mesi per i lavori da 2 a 10 mln di euro, e 15,7 anni per le grandi opere oltre 100 mln di euro.
L’eccessiva burocrazia è uno dei grandi mali di questo Paese e genera costi diretti e indiretti per le imprese. Diretti, per espletare pratiche burocratiche, ottenere permessi, pagare le tasse, eccetera. Indiretti per tempo e denaro sottratto all’attività produttiva e al lavoro. Si stima che l’espletamento di pratiche assorba non meno del 4% del fatturato delle piccole imprese (il cuore pulsante della nostra economia) e il 2,1% del fatturato delle medie. Il costo annuo per la burocrazia sostenuto dalle PMI italiane, secondo un’indagine condotta dallo Studio Ambrosetti, è pari a 32,6 miliardi di euro.
La cattiva burocrazia (quanto e più della cattiva politica), condiziona anche l’utilizzo dei fondi europei, che potrebbero impattare enormemente sulla nostra economia, ma sulla cui efficacia fatichiamo a percepirne l’utilità (proprio perché si tratta di programmi in buona parte non attuati, o attuati con enormi ritardi). La programmazione europea 2014-2020 mette a disposizione dell’Italia risorse per complessivi 115 miliardi di euro, di cui 60 relativi ai fondi strutturali europei (POR e PON che impiegherebbero 20 miliardi di risorse nazionali in cofinanziamento) e 55 miliardi relativi ai Fondi per lo Sviluppo e la Coesione.
I programmi regionali e nazionali dei fondi strutturali europei (FESR E FSE) potrebbero attivare investimenti in edilizia in maniera diretta per oltre 15 miliardi di euro, senza considerare l’indotto collegato. Allo stato attuale, invece, le ricadute non risultano ancora visibili a causa dell’evidente lento avvio della nuova programmazione, causato dalla necessità di chiudere quella precedente. Ritardi che s’assommano ai nuovi e provocano ulteriori ritardi.
Lo stato di avanzamento della Programmazione 2014/2020, in base ai dati forniti dal MEF, fa registrare su un totale programmi (91 per 75.779,49 mln di euro) una capacità di spesa pari al 23,15% (le spese sostenute sono pari a 17.542,32 mln).
Situazione analoga si riscontra nello stato di avanzamento del FESR: su 47 programmi per un contributo complessivo di 36.057,65 mln, le spese sostenute ammontano a 9.060,35 mln, circa il 25% del totale.
Al 31 dicembre 2019 lo stato di attuazione dei Fondi strutturali (dato riportato nel Comunicato dell’Agenzia per la coesione del 2 gennaio 2020) si attesta, per ciò che attiene gli impegni complessivamente assunti, al 58,2%. Il livello dei pagamenti complessivi, rendicontati al 31 dicembre 2019, ha raggiunto oltre 16,7 miliardi, corrispondenti al 30,7% delle risorse programmate.
È tutto ancora nei cassetti, insomma. Tutto ancora fermo, incomprensibilmente bloccato.
Rispetto alla media europea l’Italia mostra una grave lentezza nell’utilizzo dei fondi, sia per ciò che riguarda la selezione dei progetti che sotto il profilo della realizzazione degli stessi, attestata dalle spese sostenute.
Tale ritardo può senz’altro essere il risultato di inefficienze, di una scarsa visione strategica, di iter amministrativi complessi e farraginosi, ma dipende anche dalla tipologia di progetti selezionati e da selezionare, specialmente nei casi in cui sono da finanziare investimenti a carattere pluriennale e di entità elevata, che per loro natura richiedono tempi di realizzazione più lunghi.
La mala burocrazia rappresenta quindi un orpello cui oggi non si può non guardare. Anche la pandemia ne ha messo in luce gli effetti devastanti sul Paese.
Tocca allora liberarsi di vecchie e nuove zavorre, di procedure astruse e incomprensibili, di controlli che non hanno alcuna ragione di esistere, di passaggi burocratici che sembrano studiati per dare un senso ed una ragione ad uffici del tutto inutili e superflui. Occorre pianificare, avviare e realizzare programmi di vera ed incisiva ripresa.
Ripartiamo dagli errori fatti, sui quali tutti abbiamo avuto modo di riflettere e facciamo del Covid-19 una opportunità per costruire un Paese migliore.
Alcune regioni ancora annaspano, prese ancora da dati allarmanti sui contagi. Il Sud è quasi fuori dalla pandemia: ripartiamo allora dal Mezzogiorno: lo hanno proposto in tanti, politici, giornalisti ed economisti.
Ripartiamo dal Sud per rifondare l’intero Paese, mettendo mano ad una riforma dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali; ridisegniamo la geografia delle competenze e delle istituzioni, snelliamo adempimenti e procedure burocratiche, investiamo sul sistema-paese guardando a infrastrutture, logistica, sanità, formazione, trasporti, ricerca, enogastronomia, turismo.
Costruiamo un paese migliore e più sicuro, mettendo in sicurezza (e adeguando tecnologicamente) scuole, atenei universitari, uffici pubblici, ospedali, case di cura e di detenzione. Manuteniamo il territorio dal punto di vista sismico ed idrogeologico.
In una parola, ricostruiamo come abbiamo fatto dopo l’ultima guerra mondiale. Ripartiamo da queste macerie e facciamo in modo di ritrovarci in un Paese migliore.
Si può fare e oggi come non mai, le imprese, le famiglie e i cittadini sono pronti a recitare la propria parte.
* presidente nazionale FederCepi Costruzioni
Articolo pubblicato sull’edizione odierna di SalernoEconomy