Il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile oggi al Meeting di Rimini ci parla del gigantesco piano di ristrutturazione delle Aree interne. “Una straordinaria opportunità anche per le diocesi italiane”
C’è un lascito importante che il ministro Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, vorrebbe lasciare alla collettività e su cui lavorerà fino all’ultimo giorno del suo mandato: l’attenzione alle cosiddette Aree interne, ovvero del territorio dell’Italia più profonda, ma anche più arretrata, spesso dimenticata dalla grande rete dell’Alta velocità ferroviaria o della rete autostradale, dove sorgono i borghi e un territorio meraviglioso ma spesso aspro e poco accessibile, raggiunto da poche strade malmesse o da ‘Littorine’ a gasolio che hanno fatto il loro tempo.
Un “vagone” sociale e ambientale spesso confinato a un binario morto che il ministro vorrebbe riagganciare all’Europa. «Noi sappiamo che sul piano demografico questa parte così importante dell’Italia tende a spopolarsi perché ha servizi peggiori in termini di ospedali, scuole e opportunità economiche. Mentre si ripopolano e trovano nuove occasioni di sviluppo dove diventano accessibili».
Giovannini, che interverrà lunedì 22 agosto al Meeting di Rimini, vuole continuare quella strategia nazionale che avviò a livello sperimentale il suo predecessore Fabrizio Barca all’epoca del governo Monti, nel 2012: «Ora questa strategia è diventata strutturale e deve essere una delle priorità del Paese». Una priorità che riguarda anche la comunità ecclesiale, come dimostra l’incontro di Roma dell’8 novembre scorso tra il ministro e i vescovi delle Aree interne presso la sede della Cei.
Le Aree interne verranno dotate delle stesse infrastrutture di quelle “esterne”, toccate dall’Alta Velocità e da una rete di servizi di livello europeo? Non c’è il rischio di deturpare un territorio e un paesaggio fragilissimo?
«Dal punto di vista delle infrastrutture per molto tempo si è immaginato che le aree interne dovessero avere le stesse infrastrutture in termini di chilometri di ferrovia o di strada delle altre aree. In realtà, nella programmazione abbiamo introdotto un concetto un po’ diverso, quello dell’accessibilità, misurabile in termini di tempo per connettersi al resto del Paese. Non si tratta tanto della possibilità di far passare una linea di alta velocità nell’entroterra della Basilicata o nel Beneventano, ma di poter raggiungere in tempi ragionevoli un aeroporto, un’autostrada, una stazione dell’Alta Velocità.
Nel Piano complementare al Pnrr sono stati stanziati 300 milioni di euro per agevolare questo tipo di interventi. Poi abbiamo stanziato 13 miliardi per la manutenzione delle strade regionali, provinciali e comunali, di ponti e viadotti, ecc. Si tratta di un investimento senza precedenti, anche perché da molti anni mancavano investimenti per le strade cosiddette secondarie.
Ci saranno investimenti anche nella rete ferroviaria secondaria?
«Il potenziamento delle ferrovie regionali, in particolare nel Mezzogiorno, verrà realizzato grazie ai fondi del Pnrr. Al Sud, accanto all’Alta Velocità sulla Napoli-Bari e sulla Salerno Reggio Calabria, molte linee verranno elettrificate, treni obsoleti come le vecchie ‘Littorine’, come dice lei, che in realtà non esistono da molto tempo, verranno sostituiti da treni moderni. Inoltre, questo investimento tiene conto della transizione ecologica: ad esempio, sperimenteremo locomotive a idrogeno sulla linea Terni-l’Aquila-Sulmona».
Che differenza c’è tra un treno a idrogeno e uno elettrico?
«Quello a idrogeno facilita la transizione, permettendo di risparmiare. Glielo spiego con un esempio. Se vuole trasformare una linea diesel in elettrificata, i locomotori devono avere il pantografo, quel dispositivo retrattile fissato sopra i treni che trae corrente dalla linea elettrica. Ma questo vuol dire rifare tante gallerie, concepite per treni bassi, senza pantografo».
I “pennacchi” delle locomotive insomma, insieme ai cavi elettrici, costringerebbero ad elevare l’altezza delle gallerie….
«Esattamente, e questo sarebbe un costo molto elevato. Con i treni a idrogeno invece si aggiunge al convoglio un solo vagone – con l’elettrolizzatore – e non si devono ristrutturare le gallerie. Lo stesso con i nuovi treni ibridi già ordinati da Trenitalia».
Treni ibridi? Come le auto?
«Più o meno, con locomotive che possono marciare con motori elettrici, diesel e a batteria. Nelle zone elettrificate o nelle stazioni possono utilizzare l’energia elettrica o le batterie, rinunciando al gasolio, il che riduce l’inquinamento nei centri abitati».
Ristrutturare le strade statali, provinciali e comunali significa anche investire sulla sicurezza. La maggior parte degli incidenti stradali – soprattutto mortali – avviene su questa rete secondaria.
«Su questo abbiamo predisposto il Piano per la sicurezza stradale che vede forti investimenti verso l’obiettivo finale di mortalità zero nel 2050. In realtà, già l’Agenda 2030 dell’ONU prevedeva per il 2020 un dimezzamento delle vittime della strada rispetto al 2015, cosa che purtroppo l’Italia non è riuscita a raggiungere nonostante il lockdown.
Questo nuovo piano comprende anche investimenti infrastrutturali, in particolare di manutenzione sulle strade secondarie, dove avvengono troppi incidenti gravi: rotatorie al posto degli incroci a raso, riparazione delle strade dissestate, copertura delle buche soprattutto per i motocicli e biciclette».
A proposito di biciclette, non si può certo dire che l’Italia sia a livello di Olanda e Austria per numero di piste ciclabili …
«Negli ultimi tempi assistiamo a uno sviluppo fortissimo della mobilità ciclistica e del cicloturismo. Per questo abbiamo predisposto il primo Piano nazionale della mobilità ciclistica previsto dalla legge del 2018, cosa che nessuno prima di noi aveva mai fatto. Al di là delle ciclovie turistiche dobbiamo anche migliorare la sicurezza dei pedoni e dei ciclisti seguendo un approccio integrato fatto di vari ingredienti.
Proprio lo sviluppo del cicloturismo può consentire di attirare nelle aree interne “persone che cercano un’alternativa alle città d’arte”, come è stato detto, e che vogliono scoprire i borghi, ripopolati anche per via dello smart working. Borghi, lo ricordo, su cui c’è un fortissimo investimento con il Pnrr».
Il piano delle Aree Interne è oggetto dell’attenzione del mondo ecclesiale. Lei ha recentemente si è confrontato anche con l’allora presidente della Cei Bassetti su questi temi.
«Parto da un esempio. Con l’Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria ci saranno alcune stazioni intermedie. Quali luoghi scegliere? Avere una stazione, per farci cosa? C’è un progetto di sviluppo per quell’area? Con il cardinale Bassetti e i vescovi delle Aree interne abbiamo cercato di ragionare su cosa sarà la nuova rete infrastrutturale in fase di realizzazione grazie al PNRR e agli altri fondi che abbiamo previsto.
Tenga presente che con il PNRR è previsto un piano di miglioramento di 70 stazioni al Sud. In molte città le stazioni non sono solo un luogo per partire o arrivare, sono diventate un centro di attrazione. Pensiamo alla stazione di Reggio Emilia disegnata da Calatrava.
Le comunità locali devono quindi cominciare a pensare a cosa fare una volta che le infrastrutture saranno realizzate. E qui si innesta un altro discorso: la disponibilità di 80 miliardi di euro di fondi ordinari europei più i 50 del Fondo nazionale di sviluppo e coesione. Questi due tesoretti, che insieme fanno mezzo Pnrr, come si spenderanno? In modo sinergico con il Pnrr o verranno distribuiti a pioggia, il che impedirebbe di generare quell’effetto volano che il Pnrr prevede?»
Quello dei fondi ordinari europei è una delle pagine nere della nostra politica economica. Gli enti locali spesso e volentieri vi rinunciano perché non dispongono di progetti praticabili…
«E invece dobbiamo utilizzarli con progetti di sviluppo turistico, manifatturiero, culturale sul territorio, in connessione con le nuove infrastrutture. Per esempio, facendo un investimento supplementare dove ci sarà la stazione di Alta velocità Salerno-Reggio Calabria. E’ un approccio diverso rispetto a dare risorse a ogni ente locale senza una visione di sviluppo del territorio. Ed è proprio qui che le comunità locali devono cominciare ad alzare un po’ la voce sviluppando un’idea di futuro».
Da dove nasce l’interesse della Chiesa italiana e delle Chiese locali per questo piano infrastrutturale verso le zone interne del Paese?
«Quando i fondi europei nel 2020 vennero programmati, non c’erano ancora la Laudato si’ e la Fratelli tutti, ovvero le riflessioni straordinarie di papa Francesco sul fatto che il nostro modello di sviluppo ha generato scarti fisici e umani, le due facce di una stessa medaglia, di un capitalismo che soprattutto negli ultimi 40 anni, in nome della crescita, ha sacrificato tutto il resto, senza pensare ai danni e alle conseguenze ambientali e sociali che stava producendo.
Papa Francesco chiama le comunità a far questo ragionamento, lo fa nell’Evangelii Gaudium, ancor prima delle due encicliche che ho richiamato, quando nel capitolo dedicato al tempo e allo spazio (ne ho scritto nel mio libro Scegliere il futuro) spiega che il tempo è superiore allo spazio e bisogna costruire processi che producano cambiamenti profondi nel tempo (‘trasformativi’ direbbe l’Agenda 2030 dell’ONU, più che cercare risultati effimeri, di breve periodo.
Ecco, dunque, perché il Pnrr e gli altri investimenti previsti nei prossimi anni possono essere una straordinaria opportunità anche per le diocesi italiane, per aiutare le comunità locali a muoversi verso uno sviluppo più equo e sostenibile, da tutti i punti di vista, magari rigenerando non solo le aree urbane, ma anche quelle più interne».